La psicoterapia è una relazione e, in quanto tale, dipende dall’ambiente circostante. Come le teorie scientifiche sono figlie del loro tempo, così le malattie e le cure cambiano nei diversi momenti storici. É per questo motivo che il Dsm (Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ad ogni edizione (ce ne sono state cinque dal 1952 ad oggi) rivede i quadri sintomatologici, che costituiscono i criteri necessari a fare le diverse diagnosi. Alcune diagnosi vengono depennate: nei primi anni del 1900, Freud usava l’ipnosi e le libere associazioni per curare le donne che soffrivano di isteria, una malattia che oggi non si presenta più nella forma descritta dal padre della psiconanalisi. Allo stesso tempo, nuove diagnosi compaiono per incarnare le ombre dei nostri tempi: la disattenzione e l’iperattivita dei bambini con Adhd (Disturbo da deficit di attenzione/iperattività) ci parlano della nostra fretta, il numero crescente di alunni con Dsa (Disturbi specifici di apprendimento) riflette le mancanze di noi adulti e le carenze della didattica scolastica. Nei paesi ad alto reddito, la principale causa di disabilità e di morte sono i disturbi mentali, rispetto ai quali il cancro e le malattie cardiovascolari hanno un’incidenza minore (fonte: il rapporto dell’Harvard School of Public Health e del World Economic Forum, ripreso dall’Economist nell’articolo intitolato “Mental illness. The age of unreason”, 2015). Disturbi come la depressione e l’ansia insorgono principalmente in giovane età: i nostri ragazzi riflettono l’umore di una società triste e spaventata, di un’umanità che sembra aver perso il senso della vita.
É in questo quadro generale che si va a inserire la pandemia, trovandoci già deboli psicologicamente. L’intelligenza emotiva e il pensiero riflessivo rappresentano per la psiche l’equivalente degli anticorpi del sistema immutario: la capacità di riflettere su quello che ci sta succedendo è alla base dell’adattamento psicologico. La nostra psiche è resa fragile da una società che sacrifica il benessere psicologico all’altare dei profitti, che mina la salubrità del nostro ambiente di vita (la madre terra) per non scontentare le grandi multinazionali. Il covid è una malattia che ci parla del nostro tempo, che ci costringe a riflettere sullo stato di salute della terra e a chiederci se il nostro sistema sociale è in grado di prendersi cura di noi.
E la psicoterapia in che modo si prende cura dei pazienti in tempo di covid? Lo spazio di ascolto che offriamo risente delle condizioni che stiamo vivendo. Uno dei cambiamenti più marcati del setting psicoterapeutico è costituito dal fatto che è entrata prepotentemente in scena una dimensione collettiva: l’ansia, la paura per la salute e il senso di incertezza per il futuro non sono più sintomi prettamente individuali. Se, prima della pandemia, il paziente portava in seduta tematiche e avvenimenti personali, ora l’argomento “covid” chiama in causa qualcosa che riguarda anche lo psicoterapeuta, perché riguarda tutti noi. Questo cambiamento del setting ha un forte impatto emotivo per il professionista. Per non generare fraintendimenti, è bene specificare che di base l’ascolto richiede un’empatia tale per cui lo psicoterapeuta è abituato a mettersi in gioco a livello emotivo. Ciò è vero soprattutto quando compaiono tematiche che fanno parte dello sviluppo dell’essere umano (ad esempio, il rapporto con i genitori o con le emozioni primarie), ma si presuppone che il professionista abbia già guardato e sciolto dentro di sé questi nodi evolutivi. La formazione fornisce una posizione di vantaggio, dalla quale è possibile aiutare l’altro. Ma ora il virus sembra aver dissolto questo vantaggio: quando un paziente parla del nuovo Dpcm, una parte di noi si attiva, sentiamo la sua stessa preoccupazione, perché sappiamo di stare sulla stessa traballante barca.
A fronte di un maggiore coinvolgimento emotivo, il setting è cambiato per permetterci di lavorare a distanza. Con i pazienti che vengono in studio non ci si può salutare con una stretta di mano, la grande distanza fisica è innaturale, la mascherina impedisce di vedere come cambiano le espressioni del viso, che comunicano le emozioni. Durante il lockdown, la tecnologia ci ha permesso di mantenere un rapporto terapeutico, spostando le sedute nell’iperspazio del web. La videochiamata è utile, ma rende rigidi i turni della conversazione e ostacola ciò che ha a che fare con l’ironia. Noi psicoterapeuti ci siamo adattati, dando prova di flessibilità e cercando di usare gli strumenti che la professione ci ha dato per riflettere. Allora ci rimbocchiamo le maniche e, piuttosto che farci seppellire dall’ansia, tiriamo fuori la testa e ci guardiamo attorno per osservare il modo in cui stiamo rispondendo alla pandemia.
Vediamo che a livello collettivo si attivano le stesse difese che già Freud descriveva a livello intrapsichico. Una delle strategie principali cui l’uomo ricorre per non sentire le emozioni negative è quella di far finta che non esistano. La negazione è una difesa che sul momento ci fa stare meglio, ma allo stesso tempo toglie alla paura la sua funzione, che è quella di segnalarci un pericolo. Una certa dose di paura del contagio è non solo normale, ma anche utile, affinché ognuno di noi rifletta su cosa è bene fare per proteggersi. Un’altra difesa possibile è la conversione della paura in rabbia, un’emozione che fornisce una certa carica vitale, che si può scaricare contro un capro espiatorio designato. Il virus rimane, ma noi conquistiamo l’illusione di avere le idee più chiare sui colpevoli e abbiamo qualcuno con cui prendercela per sfogarci. Se però la rabbia diventa troppa, la nostra psiche si avvelena e la conflittualità sociale aumenta. E’ invece in atto una difesa di tipo regressivo, quando si fa ricorso a un meccanismo tipico della prima infanzia: il senso del pericolo attiva il sistema di attaccamento e ci fa cercare la protezione dello stato-genitore, a cui chiediamo misure di contenimento e di controllo. Lo stato è come un genitore onnipotente, che può guarirci da ogni male, dando un sistema di regole e punizioni ai cittadini, che sono irresponsabili e sconsiderati come bambini. La difesa più arcaica di tutte ci ricorda che il virus rappresenta una minaccia alla sopravvivenza dell’individuo e della specie, in grado di attivare una risposta primitiva di congelamento: la paura è così forte che immobilizza, come è successo a tutte le persone che non riuscivano più a uscire di casa dopo la fine del lockdown. Una difesa più evoluta è quella della sublimazione, resa possibile dall’arte. Così, durante il lockdown il web è stato inondato di video di danze, musiche e testi bellissimi. La paura resta, ma viene trasformata e resa comunicabile.
Le difese sono forme di adattamento utili all’individuo e alla società, a patto che non diventino così rigide da creare più problemi di quanti ne risolvono. La psicoterapia fornisce un aiuto in più, cercando l’insegnamento dietro la crisi. La pandemia ci costringe ad accettare qualcosa che non possiamo controllare, che è talmente più grande di noi da riguardare il mondo intero. In una società che ci regala l’illusione di poter controllare tutto, offrendoci un’app per ogni desiderio, siamo costretti a fare un atto di umiltà, che stempera il senso di onnipotenza dell’uomo. L’accettazione è una forza passiva, che accoglie senza opporsi (nel taoismo è chiamata energia Yin). Ma l’accettazione tout court può anche generare un senso di impotenza, che porta alla depressione. Per la salute della psiche, è necessario che la forza passiva si equilibri con la complementare forza attiva (Yang). In un momento così delicato della nostra storia, possiamo comunque sentire di poter fare qualcosa, se ci sforziamo di dare dare valore al nostro tempo. Piuttosto che fantasticare su un futuro distopico, alleniamo la mente a stare nel momento presente. Nel qui ed ora riscopriamo piccoli piaceri dimenticati o dati per scontati: il sole che ci accarezza la pelle se ci prendiamo 5 minuti per sederci in balcone, la bellezza dei rami fioriti di un albero che incontriamo per strada, il sorriso di chi ci sta vicino a tavola, come è bello dire “Mi manchi” a un amico che non vediamo da un po. Questa è la lezione della mindfulness (approccio che ha tradotto scientificamente i principi della meditazione per renderli utili in ambito educativo e terapeutico) e di tutte quelle pratiche che allenano la consapevolezza e riducono l’ansia. Non è un caso che con la pandemia tante persone si siano avvicinate allo yoga, al taichi, alla meditazione o, semplicemente, allo sport svolto all’aria aperta, a contatto con la Natura. Creare uno spazio di consapevolezza e di benessere è importante per i nostri pazienti, ma forse è ancora più importante per chi svolge una professione di aiuto. Per essere di aiuto agli altri, abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi. Dando valore al nostro tempo, riceviamo nutrimento dalle esperienze che facciamo e dalle persone che incontriamo. La nostra psiche impara a coltivare uno spazio pulito dove accogliere l‘altro, dove accogliere la vita.
Dott.ssa Tiziana Franceschini, Psicologa dell’Età evolutiva, Psicoterapeuta Clinica